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Il Grand Tour Ferragni e i nostri musei senza follower

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Lunedì 20 luglio Chiara Ferragni è andata a visitare il MArTA, il museo archeologico di Taranto. Noi eravamo ancora tutti lì a discutere della ormai famosa foto degli Uffizi davanti alla Venere di Botticelli con tanto di post entusiasta che la definiva “divinità digitale”, e lei lo rifaceva, tale e quale. Una foto, con mascherina stavolta, davanti a una “meravigliosa testa di donna con diadema, ritrovata a Taranto e risalente al IV sec. a.C.”. Accanto a lei la direttrice del museo, Eva Degli Innocenti, che poco prima sempre su Instagram l’aveva accolta con un post di benvenuto e che dopo esulterà “perché milioni di persone” adesso associano la città pugliese non solo all’Ilva ma anche alla cultura. Allertata dallo scivolone del suo collega degli Uffizi, si è però ben guardata dall’attribuire al passaggio della Ferragni una impennata della biglietteria, ma si è giustamente limitata a citare “un forte aumento dell’engagement rate sui social”: se poi arriveranno davvero nuovi visitatori, si vedrà. Questa vicenda della Ferragni nel ruolo di influencer discusso del nostro patrimonio culturale non si può però liquidare con un battuta dividendosi fra quelli che la detestano e quelli che la ammirano, oppure fra quelli per cui l’arte non può contaminarsi con nulla e quelli che invece invocano una svolta pop. La vicenda è infatti più complessa e analizzandola si finisce con il porsi la domanda: stiamo facendo abbastanza per portare i nostri musei nel presente? E lo stiamo facendo bene o li stiamo snaturando? 
Cominciamo con il dire che Chiara Ferragni non è finita agli Uffizi e al Marta per caso: nel museo fiorentino stava facendo un servizio fotografico; e nel Salento aveva in programma una sfilata che il suo sponsor ha legato ad un progetto per valorizzare il patrimonio culturale del luogo. Insomma, in entrambe i casi lei stava lavorando e lo stava facendo bene: le sue stories dal MArTA raccontano i vari reperti del museo, con domande e curiosità. Se vi capita guardatele: sono un buon format da copiare. E qualche giorno fa aveva raccontato, sempre su Instagram, in un ottimo inglese, il meraviglioso mosaico della vicina cattedrale di Otranto, ottenendo quasi mezzo milione di cuoricini. Nulla di straordinario per lei, in media con i suoi post. Ma non c’è solo il lavoro: alla metà di giugno era stata in visita privata alla Cappella Sistina ed il suo video sotto il capolavoro di Michelangelo aveva superato il milione di like eppure aveva fatto meno scalpore, forse anche perché il papa aveva evitato di fare un post per definirla “divinità digitale”. Insomma, la Ferragni fa la Ferragni e lo fa anche bene: questo suo Grand Tour d’Italie nell’anno del covid-19 sta contribuendo a far riscoprire i nostri tesori e rende quei luoghi meno lontani dall’immaginario delle nuove generazioni, o almeno dei suoi followers (20.5 milioni).Ma i nostri musei stanno facendo il loro mestiere? Stanno provando a intercettare un nuovo pubblico? E lo stanno facendo correttamente o si lasciano usare per qualche selfie senza senso? Partiamo dai dati: i nostri musei da qualche anno sono sui social e in particolare su Instagram, il social più adatto a valorizzare le immagini. Hanno profili in italiano e in inglese piuttosto attivi e durante il lockdown un po’ tutti hanno aumentato i propri follower. Questa è la parte positiva. Quella negativa è che i follower dei musei italiani, paragonati agli altri grandi musei del mondo, sono pochissimi. Qualche esempio: il parco del Colosseo non arriva a 20 mila; la Reggia di Caserta è a 55 mila; Venaria Reale a 39; il Museo Egizio 68 mila; il MaXXi supera di poco i 100 mila; Pompei è a 191 mila. Solo gli Uffizi superano il mezzo milione di follower, anche in virtù dell’attivismo digitale del curatore Eilke Schmidt, finito nella bufera per la Ferragni (e qualche settimana per un altro discusso esperimento social su Tik Tok). Una prece per il Museo del Cenacolo Vinciano, quello dell’Ultima Cena di Leonardo: 1294 follower. Questi sono i numeri italiani, paragonateli agli altri grandi musei del mondo: il MoMa ha 5,1 milioni di follower; il Louvre, 4,1 milioni; il Guggenheim, 2.5; il British, 1,7; il Prado 745 mila; ci finisce davanti anche l’Hermitage di San Pietroburgo, a quota 572 mila follower. Ora, i follower non sono tutto nella vita, non sono la misura di tutte le cose. Ma questo confronto rapido evidenzia che il problema non è la Ferragni che si fa un selfie davanti a un capolavoro e nemmeno il post “sgravato” del curatore che la celebra come una dea;, il problema è che non stiamo facendo abbastanza per raccontare il nostro patrimonio culturale anche sui social. Lo stiamo facendo poco e di solito lo stiamo facendo male. La cosa da fare insomma è non fermarsi alla domanda “ma sono gli Uffizi che usano la Ferragni o la Ferragni che usa gli Uffizi?”, perché sono vere entrambe le cose. La vera domanda è: perché con tutti i nostri tesori ci accontentiamo di  una prestazione così scialba sul campo di gioco dove stanno ogni giorno la metà degli abitanti della terra e quasi tutti i giovani?Chiarito che la Ferragni fa il suo mestiere di influencer e lo fa bene e non fa più danni della nostra indifferenza quotidiana, che altro possiamo fare per appassionare davvero le nuove generazioni ai tesori che custodiamo, a volte sotto la polvere, di musei peraltro bellissimi? Possiamo raccontarne meglio le storie e farlo con un linguaggio da social ma senza perdere la nostra identità. Che vuol dire? Vuol dire non fare quello che ha fatto il Washington Post quando aprì un profilo su Tik Tok: il Washington Post, un pilastro del giornalismo, il giornale che pubblicò l’inchiesta del Watergate mandando a casa un presidente degli Stati Uniti. Bene, arriva Tik Tok e cosa fanno loro? Fanno video buffi, dove i giornalisti accennano balletti e gag. Fanno i simpatici, sono patetici. Anche perché poi arriva Black Lives Matter e Tik Tok, il social dei video scemi, diventa il social dove il movimento anti razzista si racconta e cresce. Insomma se sei un museo e stai su Instagram non devi per forza fare il simpatico, o esibire un influencer, ma puoi fare quello che stanno facendo in questi giorni alcuni grandi musei americani: puoi raccontare le storie di cui sei custode, appassionarci a tesori senza tempo, farci scoprire la passione per la cultura. E’ una partita complicata, ma non impossibile. Gli altri ci stanno riuscendo e non hanno i capolavori che ha l’Italia.


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